Chrome, il nuovo browser di Google, continua a catalizzare l’attenzione. È l’ultimo arrivato di un mercato in cui di browser in realtà ce ne sono a bizzeffe. Un migliaio di possibili varianti, oltre cento versioni “importanti” e un nocciolo duro di tre prodotti che da soli fanno il 96% del mercato. Un mondo più ricco e frammentato di quanto non si pensi. E molto particolare. Perché è un mercato che non vale miliardi, ma che i miliardi li fa guadagnare lo stesso.
Come è possibile questo paradosso? La risposta è semplice, se prima si chiariscono un paio di punti. I browser possono essere divisi in tre grandi gruppi: quelli basati su tecnologie chiuse e di proprietà di una singola azienda (come Internet Explorer di Microsoft e Opera della norvegese Opera Software), quelli realizzati con tecnologie aperte fatte da volontari coordinati da una fondazione (come Firefox della Mozilla Foundation), e infine quelli realizzati con tecnologie aperte ma da grandi aziende (come Safari di Apple o il browser della Playstation 3 di Sony e, per l’appunto, Chrome di Google), che risparmiano sul “motore” per investire su carrozzeria e allestimenti.
In principio, però, ce n’erano solo due: Mosaic e poi Netscape, fatti entrambi da un paio di scapestrati studenti americani che, nel 1994, diedero gambe al World Wide Web di Tim Berners-Lee. Bill Gates li temeva: il browser per andare su Internet toglieva utilità e quindi potere al software installato sul computer. Per questo Internet Explorer, il browser di Microsoft, è nato come prodotto gratuito e pre-installato sui Pc: per mettere fuori mercato Netscape. Fu la “guerra dei browser” degli anni Novanta, che ebbe anche risvolti di una certa importanza con l’Antitrust americano.
Se Explorer è gratuito per tenere legati gli utenti allo standard deciso da Microsoft, Firefox (e mille altre varianti minori come SeaMonkey, Camino e Galeon) lo è proprio per azzerare questo vantaggio. Realizzato dal movimento Open Source, Firefox cerca di fornire migliori prestazioni agli utenti, più controllo della privacy e non chiede niente in cambio. Ma i motori “open” fanno viaggiare anche ai prodotti dei grandi come Apple e Sony.
Opera, nato nel 1995, per sopravvivere si è focalizzato sui telefonini, dove viene installato dai produttori dell’apparecchio (che pagano la licenza a Opera Software) o dagli stessi utenti. Apple invece ha rilanciato il suo Safari anche su Pc per aumentare le quote di mercato: la casa di Steve Jobs cerca di far vedere che i suoi prodotti sono usciti in questo modo dalla nicchia del 2,5% in cui sono rinchiusi da anni e questo si traduce in valutazioni positive in Borsa per l’azienda.
Google, infine, cerca di fare proprio quello che Bill Gates temeva nel 1995: rendere irrilevante Windows dimostrando che, con il browser adatto, tutto quel che serve per scrivere, giocare, guardare i video e via dicendo si trova su Internet. A quel punto, è uguale se si usa Pc, Mac o Linux. E così si spiega anche il paradosso iniziale. I browser sono gratuiti perché alla fine servono a vendere qualcos’altro: sistemi operativi, pubblicità, reputazione da capitalizzare in Borsa. In realtà, infatti, nessuno regala niente.